Mi chiedeva alcuni giorni fa un cliente: “come posso far fare ai miei dipendenti quello che voglio io e non quello che vogliono loro?”
Da questa domanda è scaturito un interessante dialogo su autorità e autorevolezza.
Anzitutto abbiamo cercato di dare insieme una definizione di autorità, giungendo di comune accordo alla seguente formulazione “esercizio del potere di tipo dogmatico”. Il capo ordina perché è il capo, il collaboratore esegue perché è un sottoposto. Vi risparmio a questo punto considerazioni sull’organizzazione aziendale di tipo fordista, i suoi pro (alcuni) e i suoi contro (parecchi). Mi interessa piuttosto spostare la vostra attenzione su questa osservazione: il concetto di autorità si basa su un pregiudizio, che i collaboratori debbano necessariamente essere costretti a eseguire i compiti previsti dal loro ruolo. In conseguenza di questo pregiudizio l’attenzione e l’atteggiamento relazionale dei responsabili si spostano naturalmente verso i sistemi di coercizione e punizione, allontanandosi da incentivi e sistemi premianti.
L’autorità si impone, inappellabile e indiscutibile.
L’autorevolezza, al contrario, è fortemente legata a un livello di comunicazione assertivo che prevede di considerare contemporaneamente i propri bisogni e quelli degli altri.
Un responsabile autorevole sa ispirare fiducia e riesce a ottenere collaborazione senza coercizione. Questo ovviamente non significa che sia necessario eliminare i sistemi di disincentivazione, significa piuttosto che si deve riuscire a considerarne l’applicazione un’eccezione più che la normalità, a tutti i livelli di responsabilità aziendale.
Thomas Harris direbbe che si tratta di passare dall’atteggiamento “io sono ok, tu non sei ok” all’atteggiamento “io sono ok, tu sei ok”.
Io preferisco notare che l’autorità crea ribelli, l’autorevolezza genera discepoli.